Qualche hanno fa mi avreste potuto trovare impegnata a tradurre dall’inglese all’italiano sottotitoli di telefilm americani. Un lavoro lungo e spesso tedioso che ovviamente non prevedeva nessun compenso economico o particolari riconoscimenti. Insomma, manco la gloria. Perchè lo facevo allora? Semplicemente perchè adoravo quei telefilm, ne ero praticamente ossessionata ed era una passione che sentivo di dover diffondere e condividere.
Immagino possa essersi sentito un po’ così anche il giovane Cesare Pavese (scusami, Cesare, per il paragone) quando nel 1932, a 24 anni, pubblicò con Frassinelli la sua traduzione di Moby Dick (ne pubblicherà una seconda versione corretta nel 1941).
I got a crush on that fellow, and would it cost me my life blood I’ll push him along
Questo scriveva ad un amico. Ho una cotta per quello là, e mi dovesse costare del sangue non lo mollerò! Pavese era uno di noi: era, prima di tutto, un fan.
Tanto che dichiarò che avrebbe tradotto Moby Dick anche gratis, anzi, avrebbe pagato lui per farlo (il compenso fu di 1000 lire).
Cercando notizie sulla sua traduzione, mi ha sorpreso scorprire che è proprio a Cesare Pavese che dobbiamo la nascita del mito americano, cioé l’esaltazione del dinamismo e dell’entusiasmo made in USA. E tutto questo trova una facile spiegazione se consideriamo il contesto storico in cui lo scrittore terminava l’università.
Pavese veva studiato letteratura americana e si era cosí tanto appassionato alla poetica di Walt Whitman che a lui aveva dedicato la sua tesi. Si era nel pieno del ventennio fascista e il Ministero della Cultura Popolare già censurava abbondantemente quello che veniva pubblicato in Italia, addirittura bandendo dal vocabolario le parole inglesi.
Un nazionalismo sfrenato aveva portato la letteratura italiana a chiudersi e a ripiegarsi su se stessa in un pedante autocompiacimento lontano dalla vita vera; a persone curiose ed entusiaste come Pavese semplicemente mancava l’aria. Tutto era limiti, costrizioni e stagnazione.
E’ in questo clima che il giovane scrittore si butta sulle traduzioni di Lewis, Anderson e Melville, trovando in loro quella vitalità che mancava al nostro paese. I loro scritti erano “una incomposta sintesi di ciò che il fascismo pretendeva negare” dice Calvino commentando il lavoro di Pavese.
Erano nuova linfa barbarica e primitiva. Erano dinamismo, confusione. Esaltazione dell’individuo in tutte le sue sfaccettature, immerso in una multiculturalità ribollente.
Ci si accorse durante quegli anni di studio, che l’America non era un altro paese, un nuovo inizio della storia, ma soltanto il gigantesco teatro dove con maggiore franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti […]. La cultura americana ci permise in quegli anni di vedere svolgersi come su uno schermo gigante il nostro stesso dramma [[Cesare Pavese, La letteratura Americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1959, pp. 195-196.]]
Ma quello per lo scrittore americano Melville si rivelerà essere vero amore, che sopravviverà anche al disincanto sopraggiunto alla fine del fascismo. Per Pavese Melville incarna l’esempio dello scrittore perfetto. Colui che prima aveva vissuto intensamente la vita sulla sua pelle (navigando per gli oceani per quattro anni) e che poi, avendone fatto esperienza profonda, la trasportava con vitalità e dinamismo sulle sue pagine.
Sarà dovuto a tutto questo entusiasmo di Pavese che Moby Dick ha così tante traduzioni in Italia? Paesi come la Francia ne hanno giusto un paio, mentre noi ne sforniamo una nuova ogni cinque o sei anni. Una sfida eterna verso il lavoro di Pavese che resta apprezzatissimo, ma anche molto controverso.
C’è infatti chi accusa Pavese di dilettantismo (in fondo era giovanissimo), di essere stato approssimativo nella traduzione delle parti più tecniche, di aver piegato Melville al suo gusto personale.
Resta il fatto che la traduzione di Pavese (ora edita da Adelphi) é ormai impressa nel cuore di tantissimi lettori italiani e resta punto di partenza di chiunque voglia tradurre Melville.